top of page

Bruce Gilden, di Francesco Tadini – grandi fotografi

Bruce Gilden, di Francesco Tadini – I grandi fotografi raccontati da PhotoMilano. Se volete una fotografia spietatamente sincera allora siete nel post giusto. Bruce Gilden è l’antitesi del fotografo ordinario: comincia ad appassionarsi a questa disciplina in tarda età, è un abitudinario, amante dei progetti a lungo termine, non studia la scena o la composizione in maniera ossessiva ma si lascia trasportare dalle impressioni del momento. Per comprendere la sua anima, però, meglio partire dall’inizio.

Bruce Gilden, Blow-Up e la street photography

Bruce Gilden

Bruce Gilden, fotografo


Bruce Gilden nasce a Brooklyn nel 1946, in un periodo di forte crescita economica dove New York diventa il centro del mondo. Lo sviluppo urbano della città è il perno su cui girano vorticosamente le menti più eccelse del millennio e Gilden lo vive pienamente. Sarà forse per questo che decide di studiare sociologia alla Penn State? Non lo sappiamo con sicurezza ma è certo che è stato Michelangelo Antonioni a spingere implicitamente Gilden verso la fotografia grazie al suo film Blow-Up. La trama tratta di un fotografo di moda che si ritrova a scattare foto una donna misteriosa e, forse, a un omicidio. Tutta la vicenda è macchiata dal thriller più puro ma non sono le luminose luci di uno studio professionale né le curve delle modelle ad attrarre Bruce Gilden. Il suo interesse è in quella fotografia improvvisa tipicamente street. Il giovane studente decide di acquistare la sua prima macchina fotografica e concedersi delle lezioni serali per colmare le proprie lacune tecniche alla School of Visual Arts della città.

Abbiamo detto che è un fotografo abitudinario e amante dei progetti a lungo termine perché fin da subito la sua attenzione si concentra in poche zone e verte su temi abbastanza simili. Gilden frequenterà le stesse città per moltissimi anni, scattando vari soggetti e documentando uno spaccato onesto della società del tempo. Basta considerare il progetto Coney Island. In questa spiaggia di New York il fotografo ritornerà per 20 anni, lasciando ogni volta una traccia diversa nelle proprie pellicole. Armato di una Leica M6, un obiettivo 26mm e un flash esterno, Bruce Gilden si insinuerà nelle vite ordinarie dei bagnanti, immortalandone le pose grottesche e rilasciando un’aura tragicomica nell’intera serie (che culminerà nel libro Coney Island del 2002).

Sfogliando le fotografie di Bruce Gilden ci si immerge in un universo kafkiano dove nonnine sorridenti mostrano maliziosamente i seni nudi, giovani musulmane prendono il sole in calze di lana e chador, aspiranti bodybuilder mentre mostrano i muscoli a vecchietti rachitici. Il tutto esplode in una mal celata idiosincrasia del genere umano. Una delle foto più iconiche è quella dell’anziano appisolato. Questa fotografia è un gustoso antipasto di ciò che Gilden preparerà negli anni successivi. Scattata nel 1977, sembra uno scatto casuale ma nasconde di più. Alle spalle del soggetto si vede chiaramente la Wonder Wheel di Coney Island, una spiaggia quasi vuota e una ripresa dal basso che sarà il marchio di fabbrica di Gilden. Questa angolazione si concentra puramente sul viso del soggetto, allungandone leggermente le proporzioni e fossilizzando l’attenzione dell’osservatore sui difetti del volto. L’obiettivo è umanizzare lo scatto il più possibile, allontanando la resa patinata che impazzava nella New York di quei tempi.

Bruce Gilden, Haiti e Facing New York

Interessato ai dualismi e alla ricerca dei contrasti, Bruce Gilden procede con un secondo progetto: Haiti, dal 1984 al 1996. In questo Paese il fotografo troverà Eros e Tanathos, gioia e disperazione, apatia e vitalità. Complice questo nuovo ambiente, Gilden cambierà modo di fotografare, prediligendo uno scatto improvviso e dinamico. Lo scatto più conosciuto di questa serie è “Cemetery” (scattata a Port-au-Prince) del 1988. La prima cosa che balza agli occhi è una donna disperata che apre la bocca, guarda un punto fuori dallo schermo. Concentrandosi meglio, però, compaiono una, due, tre, quattro mani che la tengono bloccata. Sullo sfondo c’è un uomo impassibile vestito elegantemente. In questo scatto c’è la prova di una tecnica mai banale: non c’è una composizione virtuosa né uno studio perfetto delle luci ma c’è un primo piano completamente a fuoco, un’ambientazione intuitiva e uno sfondo tremolante, segno di uno scatto immediato. Ancora una volta è questa immediatezza a essere l’arma vincente di Gilden, prova del suo occhio da cecchino. Tutto il progetto di Haiti è scattato in bianco e nero (come Coney Island d’altronde e la maggior parte dei lavori di Gilden) e ha uno stampo documentaristico. Il fotografo ha cercato quanto più possibile di avvicinarsi alla quotidianità dei propri soggetti, ricercandoli nei funerali, negli ospedali o nei mercati locali. Il progetto venne pubblicato nel 1996 e vinse l’European Publishing Award for Photography. In questo periodo comincia a spostarsi in vari Paesi per lavori su commissione, viaggerà in India, Russia e Romania ma ritorna a New York appena può. Proprio nella sua città siglerà uno dei suoi progetti più ambiziosi e conosciuti: Facing New York.

Facing New York presenta delle caratteristiche distintive di Gilden: i volti ravvicinatissimi, le riprese dal basso e l’uso di un flash quasi prepotente. Bruce Gilden era solito seguire i passanti, cercare i volti più espressivi e fotografarli in maniera rapida e decisa. Utilizzava un flash esterno, con angolazione a 45° rispetto al soggetto. Le foto sembrano casuali e senza un vero e proprio main theme ma è solo un’impressione superficiale. Girovagando nel web è possibile imbattersi in tantissimi video che documentano la pratica del fotografo. Lo spettatore è quasi divertito da quest’uomo che cammina a passo svelto, si muove freneticamente, avvista un taluno personaggio e ne convoglia il percorso fino a correggerne la traiettoria. Che cosa lo spingeva a scegliere un soggetto piuttosto che un altro? Dando una rapida occhiata alle foto ci si rende conto che le persone fotografate sono “diverse”. Gilden era attratto dalla diversità nel senso più ampio del termine. Bruce amava i reietti della società e ciò poteva comprendere anziani o tossicodipendenti, prostitute o donne deformate dalla chirurgia. Tutti avevano uno strano modo di vestire, uno strano modo di camminare, uno strano sguardo che li separava dalla massa e li rendeva speciali. Il fatto di scattarli in maniera così ravvicinata era un ottimo metodo per imprimere nella pellicola i difetti più nascosti e le espressioni più spaventate. Il suo occhio era un binocolo panoramico sulla New York che sopravviveva, la sua macchina fotografica una prova concreta del decadentismo che imperava.

Bruce Gilden, Giappone e yakuza

Nel 1994 Bruce Gilden si trasferisce in Giappone per iniziare una serie complessa. A quei tempi, in un Giappone tecnologico, il mondo ammirava la precisione e l’innovazione del sistema giapponese senza addentrarsi in una profonda disamina dello stesso. In quasi 6 anni di documentazione, Bruce Gilden è riuscito a unirsi a rappresentanti della yakuza giapponese( chiamata anche gokudō), scattando fotografie incredibili a una delle organizzazioni criminali più grandi al mondo. In Go c’è anche spazio per i bassifondi della società come senzatetto e Bosozoku (gang di motociclisti). Ancora una volta lo stile è il solito: monocromatico, riprese dal basso e forti contrasti tra luci e ombre. Il risultato è un estremismo che va dritto al punto, evidenziando il lato nascosto di un Giappone vittima di se stesso.

Sono pochi i fotografi che possono dire di aver fotografato i Boss della yakuza, Gilden ci è riuscito grazie a un elemento imprescindibile del suo carattere: il silenzio. In tutte le sue opere, il fotografo mantiene una riservatezza esemplare e non giudica mai il soggetto ritratto. Nella sua testa non c’era alcun riferimento all’attività illecita del Boss, né al fatto che fosse un probabile omicida. L’intento era uno solo: rappresentare la realtà senza alcun tipo di influenza esterna. Gli scatti di questo progetto sono molti forti e verranno pubblicati nel 2000. Le immagini più urtanti sono delle vittime della yakuza. L’osservatore sente quasi il disgusto alla presenza di cicatrici, lividi, sangue, morti e vittime di pestaggio. Tutto ciò è sottolineato dal contrasto con le immagini calme e distaccate dei Boss, esaltati da un’eleganza quasi occidentale e che cozza con il loro animo spietato.

Bruce Gilden e l’agenzia fotografica Magnum Photos

Il suo approccio al lavoro e la forte individualità delle sue fotografie, permettono a Bruce Gilden di raggiungere una consacrazione importante: la famosissima agenzia fotografica Magnum Photos lo accoglie nel suo staff e gli commissiona diversi lavori . Per l’agenzia comincerà anche a fotografare a colori per la serie “Magnum’s Postcards From America”. Magnum Photos gli dedicherà anche il meraviglioso documentario Contact Sheets, una pietra miliare per gli amanti della street photography. Paradossalmente il progetto più famoso di Bruce Gilden è anche il più breve. Durato solo 2 anni, Face è una serie di ritratti scattati durante i vari viaggi del fotografo in giro per il mondo. Lo stile si caratterizza per alcune differenze rispetto al solito. Gilden abbandona il bianco e nero e carica i colori in maniera accentuata per caricaturare i volti dei propri soggetti. La ripresa è sempre centrale, per dare simmetria alla composizione, ma con un grandangolare che distorce la normale fisionomia e ne enfatizza i difetti. Ancora una volta c’è un uso smodato del flash per illuminare in maniera nitida il volto, senza tralasciarne nessun aspetto.

Come sempre i protagonisti sono personaggi strani: le donne sono pesantemente truccate, gli uomini hanno volti deformi o rovinati dalla droga, c’è chi ha vistose cicatrici e chi presenta segni di tumefazione. Lo scopo è rappresentare un Freak Show di strada e lo spettatore sembra quasi attratto da questa realtà. In un clima permeato da mass media che rigurgitano continuamente volti perfetti e surreali, il lavoro di Gilden crea sentimenti discrepanti. In un’intervista, il fotografo dichiara di sentire l’odore della strada nei suoi scatti e noi siamo pienamente d’accordo. Sfogliando Face si sente quasi un sentore acre e disgustoso, di sudore rappreso e profumi scadenti. Sentiamo quasi il bisogno di allontanarci da tutta questa vicinanza. Si ha come la parvenza di sfilare davanti a un mucchio di foto segnaletiche dal dubbio gusto. Tra un’acne aggressiva e una disodontiasi evidente, Bruce Gilden riesce a ottenere una street photography pura, cruda e certamente grottesca.

In un’intervista disse di essere stato l’ammiratore dei wrestler più brutti, segno di un interesse reale verso questa tipologia di persone. Bruce Gilden è sempre stato affascinato dalle vittime e queste persone lo sono in un modo o nell’altro. Questa è la costante di tutta la sua vita. Ciò scatena un forte tema morale perché questa diversità trattata con veemenza porta a un’ulteriore allontanamento da questi soggetti, senza contare che la street photography è tutt’ora oggetto di polemica per questa “insolenza” dello scatto che infastidisce i passanti. L’era del selfie non ha portato che a una ricerca continua del lato migliore di sé, con un rigetto immediato della propria immagine senza pose e filtri. Una fotografia come quella di Bruce Gilden è una lucida pazzia che la società accetta con fatica, qualcosa di conflittuale che attrae e rifugge allo stesso tempo. Ci sentiamo dispiaciuti per queste persone anche se non le conosciamo, vorremmo non averle mai viste per non fare i conti con la durezza della vita ma allo stesso tempo siamo curiosi di esaminare tutte le loro ferite visibili, felici di non essere tra loro.

Bruce Gilden e A Beautiful Catastrophe

Andando avanti con la vita del fotografo, nel 2005 propone un nuovo progetto anche se nuovo non è il termine più appropriato. A Beautiful Catastrophe –  il titolo arriva dalla citazione di una dei più grandi architetti del Novecento, Le Corbusier: “A hundred times have I thought New York is a catastrophe and 50 times: It is a beautiful catastrophe” – rappresenta  il suo ritorno alle origini: a quella fotografia in bianco e nero, alle boulevards newyorkesi piene dei suoi personaggi strani, alla fotografia d’impeto che flasha i passanti come una scudisciata. Il lavoro di Bruce Gilden raggiungerà una notorietà tale da renderlo protagonista del docufilm “Misery Loves Company: La vita e la morte di Bruce Gilden”, all’interno del quale si può percepire il pensiero e lo spirito del fotografo. Nel 2008 si trasferisce in Florida dove lavora alla serie No Place Like Home, improntata alla denuncia della mancanza di un diritto di riscatto di un immobile. La serie non è ancora finita ma contiene già alcune immagini toccanti che ben rappresentano il tema. Nel 2013 viene premiato con la nota Guggenheim Fellowship, un’onorificenza in denaro che vuole supportare l’estro creativo di professionisti legati al mondo della cultura senza pressarli con scadenze o limiti definiti. Attualmente il fotografo continua a scattare con il suo stile sfrontato e i suoi scatti sono esposti nei musei e nelle collezioni di tutto il mondo. Potete trovare diverse opere al MoMa di New York e al Victoria & Albert Museum di Londra.

Il Sito web ufficiale di Gilden, dove studiare e riguardare la sua produzione fotografica è: http://www.brucegilden.com/

Vi consiglio, inoltre, di consultare il sito di Magnum Photos, dove troverete news e una corposa selezione dei suoi lavori.

Francesco Tadini – fondatore di PhotoMilano club fotografico milanese

Francesco Tadini ha creato – guarda la sua pagina su questo sito all’indirizzo https://photomilano.org/francesco-tadini/ – nel giugno 2017 il gruppo Facebook “Photo Milano, passione (e non solo) per la fotografia” che ha superato attualmente i 2600 iscritti. Il club fotografico ha sede presso un’altra creatura di Francesco Tadini: la Casa Museo Spazio Tadini in via Niccolò Jommelli 24 a Milano che – insieme all’altra fondatrice della casa museo, Melina Scalise e alla curatrice e agente fotografica Federicapaola Capecchi – supporta l’attività del club con l’organizzazione  di mostre fotografiche, workshop e serate conviviali.  Alle esposizioni collettive e personali  – da giugno 2017 a oggi – hanno partecipato centinaia di fotografi milanesi e non. Il progetto di PhotoMilano è nato con l’intento di unire e rafforzare le relazioni tra fotografi professionisti – di vari settori – e le migliaia di appassionati che nella fotografia vedono non solamente uno svago, ma un’occasione vitale di crescita progettuale ed espressiva.

3 visualizzazioni0 commenti
bottom of page